Dietro le porte chiuse di una federazione globale
Mohammed Ben Sulayem, riconfermato presidente della FIA, ha risposto alle accuse di presunta manipolazione elettorale con una frase secca: gli avversari “dovevano viaggiare in Sudamerica per ottenere consenso e sostegno”. Il messaggio è diretto. Non basta parlare dall’Europa. Bisogna incontrare i club, stringere mani, ascoltare bisogni concreti.
Fin qui, i dettagli ufficiali sulle accuse restano scarsi. Non risultano pubblici, al momento, documenti che le definiscano nel merito. Questo non svuota la questione. Ma impone prudenza. La FIA è una federazione complessa: riunisce oltre 240 club nazionali e territoriali, con competenze che vanno dal motorsport alla sicurezza stradale. In questo ecosistema, le elezioni si vincono con coalizioni ampie, costruite paese per paese.
Il contesto che conta
Lo statuto della federazione (FIA Statutes, pubblici sul sito istituzionale) affida il voto ai club membri. Non è un’elezione “di paddock”. È un processo multilivello. I blocchi regionali hanno peso specifico: Europa, Africa, Asia-Pacifico, Americhe. Qui entra in gioco il passaggio chiave della replica di Ben Sulayem. Il Sudamerica è un crocevia di club storici e voci influenti. Pensiamo all’Automóvil Club Argentino o alla Confederação Brasileira de Automobilismo. Chi vuole convincere deve presentarsi, spiegare programmi, offrire supporto concreto: formazione per ufficiali di gara, standard di sicurezza, sviluppo del karting di base, audit tecnici. È politica sportiva, nel senso pieno del termine.
C’è un precedente utile per leggere il clima. Nel 2024, un’istruttoria interna ha “ripulito” il presidente da diverse accuse separate di interferenza gestionale, come riportato dai comunicati della FIA e ripreso da media internazionali (es. BBC, Reuters). Non è la stessa vicenda. Ma mostra quanto la percezione pubblica si intrecci con il lavoro operativo di una federazione globale. Ogni gesto diventa segnale.
E qui il punto centrale affiora
La frase sul “viaggiare in Sudamerica” non è solo una difesa. È una cornice: la differenza tra lobbying legittimo e manipolazione. Una campagna elettorale in un organismo transcontinentale si fa “sul campo”. Gli incontri servono a mappare priorità: calendari regionali, investimenti in autodromi, regole di omologazione, fondi per la sicurezza stradale. È normale che i candidati cerchino sostegno dove la rete è più fitta e la partecipazione più attiva. La linea rossa passa altrove: trasparenza degli impegni, tracciabilità delle risorse, rispetto delle procedure d’aula.
Esempi concreti aiutano. Chi ha girato per le federazioni locali sa che spesso la richiesta numero uno è la formazione: steward aggiornati, commissari con strumenti moderni, procedure allineate ai regolamenti. In altri casi, il tema è l’accesso: costi per le licenze, programmi per i giovani, parità di genere. Portare risposte è campagna. Inquinare il processo è un’altra storia.
Cosa cambia, adesso
La replica del presidente manda un messaggio chiaro ai futuri sfidanti: uscire dalla bolla europea, pianificare missioni regionali, costruire proposte misurabili. Se le accuse avranno seguito formale, lo diranno gli organi preposti. Se invece si fermeranno ai rumors, resterà la lezione politica: nell’era delle federazioni globali, le metriche della legittimazione passano per la prossimità.
Resta una domanda aperta, utile a tutti: possiamo rendere visibile il “come” delle campagne, senza perdere efficienza? Un registro pubblico degli impegni presi con i club, date e temi degli incontri, indicatori di esecuzione. Sarebbe un passo piccolo e concreto. Perché, alla fine, in uno sport che vive di dettagli, la differenza tra una visita e una pressione è tutta nella luce che ci metti sopra.





